lunedì 2 marzo 2009

Federalismo contemporaneo italiano: siamo sicuri che sia "made in Padania"!?

C'è molto più Luigi Sturzo - prete cattolico siciliano che avrebbe, ancor oggi, più di una lezione da impartire a tanti sedicenti "democratici", "liberali" e "laici", di destra e di sinistra, dei giorni nostri - che Gianfranco Miglio - il primo "ideologo" della Lega Nord - nell'attuale movimento verso il federalismo delle istituzioni italiane

Scilla (Italia), 2 marzo 2009

Agli albori della fondazione dell'ultimo Regno d'Italia - e, quindi, di quello Stato unitario di quasi tutta la Nazione italiana del quale la nostra Repubblica è la continuazione - si ritenne eccessivamente pericoloso per l'appena conseguita unità nazionale non solo un assetto di tipo autonomistico, regionalistico o federale ma persino un ordinamento di alcune cruciali amministrazioni nazionali - essenzialmente quelle dedite alle attività produttive, all'agricoltura e all'istruzione - che fosse almeno in parte pluralistico e decentrato e partecipato dalle popolazioni locali, ferma restando la struttura gerarchizzata.
Il neonato Stato, dunque, conobbe subito la luce come Stato fortemente accentrato, anche se le opzioni autonomistiche o, quanto meno, anticentralistiche furono sempre presenti nel discorso pubblico e nella ricerca scientifica, sia pur in posizioni minoritarie.
L'ordinamento delle amministrazioni comunali e provinciali, tuttavia, fin dagli ultimi decenni del XIX secolo, lasciava dei margini, sia pur esigui, perché la passione civile e le solide competenze di uomini organizzati e perseveranti riuscissero ad incidere sui governi locali in modo da renderli strumenti per l'armonioso sviluppo - economico, sociale, culturale, civile - della comunità affidata tutt'intera e non come "giocattoli" al servizio dell'avidità e della prepotenza dei potentati e dei notabilati di turno, come avveniva (ed avviene?) nella grande maggioranza delle amministrazioni locali dell'Italia del tempo. Finché il governo fascista non provvederà a soffocare perfino ogni barlume di questo "ipofederalismo"...
Finita la dittatura, i movimenti favorevoli alle autonomie riemergeranno con maggior forza ma, nonostante il percorso da essi promosso si dimostrerà irreversibile, altrettanto tenaci si riveleranno le resistenze - alcune sostenute da solidi argomenti storico-scientifici, altre motivate esclusivamente da timore di perdere posizioni di potere acquisite con il precedente ordinamento - all'attuazione di questo ambizioso disegno. Mentre praticamente da subito le degenerazioni partitocratiche e statalistiche comprometteranno pesantemente la capacità del nuovo assetto autonomistico di raggiungere i suoi obiettivi di armoniosa diffusione del benessere economico, sociale e civile.
Sebbene quasi tutta la storia della Repubblica abbia rappresentato un lentissimo ma progressivo avanzamento dell'idea e della realtà dello "Stato delle autonomie", il "salto di qualità" s'è avuto soltanto con gli anni '90 del XX secolo e con gli anni 2000, tanto da far convenire un numero crescente di giuristi sulla caratterizzazione sostanzialmente federale della Repubblica attuale o, quanto meno, da far dire a molti di loro che tale caratterizzazione sarà compiuta non appena si sarà configurata una delle Camere del Parlamento nazionale come "Senato federale" o "Camera delle Regioni". E, curiosamente, ciò è avvenuto con ogni tipo di maggioranza politica al governo del Paese. Quelle imperniate sulla Dc e sul Psi che hanno prodotto nel 1990 la nuova legge sugli enti locali e nel '93 quella per l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Provincia. Quelle del centrosinistra ulivista e postulivista che, probabilmente, hanno dato il contributo maggiore, fra il 1997 ed il 2001, con le leggi Bassanini, prima, e con la modifica delle norme costituzionali relative a Regioni, Province e Comuni, dopo. E quelle di centrodestra che, dopo aver provato invano nel 2005/'06 a completare e razionalizzare il disegno riformatore al livello costituzionale, s'accingono ora ad attuare la riforma del centrosinistra, soprattutto nella parte relativa al cosiddetto "federalismo fiscale".
Ora, sia che si approvi sia che si deplori tale evoluzione, è opinione comune che a tali risultati si sia giunti non solo per effetto del movimento politico-sociale cavalcato e stimolato dalla Lega Nord. Ma, più in generale, da un vero e proprio "vento del Nord" (il secondo, dopo quello che avrebbe dovuto portare i socialcomunisti alla vittoria nelle elezioni politiche del 1948), causa della presa di coscienza a livello nazionale di un'ineffabile "questione settentrionale", caratterizzata soprattutto da insofferenza per gl'inefficienti ed invasivi meccanismi burocratici del consolidarsi dei quali, a torto o a ragione, è stato ritenuto responsabile lo Stato centralisticamente organizzato.
Se limitiamo la nostra indagine all'ultimo quindicennio ed agli aspetti strettamente politici, la lettura appena prospettata è probabilmente plausibile. Ma se la estendiamo a tutta la storia del Novecento italiano e poniamo maggior attenzione agli aspetti teorico-culturali, tale plausibilità ne uscirà confermata?
Secondo me, no.
Nell'attuale Italia delle Regioni, delle Province e dei piccoli e grandi Comuni c'è molta più Sicilia che Lombardia... Molto più Luigi Sturzo che Gianfranco Miglio, il primo "ideologo", oggi scomparso, dei movimenti leghisti. Quest'ultimo era un sincero - e culturalmente estremamente attrezzato - avversario dello Stato nato dal Risorgimento. Non mancavano in lui punte di xenofobia e di razzismo, che in più di un'occasione lo portarono a sostenere una sorta d'incurabile "diversità" antropologico-culturale delle genti meridionali da quelle del Settentrione che avrebbe condotto le prime ad essere pressoché incoercibilmente refrattarie al rispetto delle leggi e del bene comune e dedite esclusivamente al perseguimento, anche con mezzi poco o nulla leciti, dei propri interessi particolari. Vagheggiava una sorta di "Confederazione elvetica", in salsa italiana, che avrebbe di fatto abolito lo Stato preesistente e reso solo formale l'unità nazionale, attraverso il mantenimento delle cinque Regioni a statuto speciale ed il raggruppamento delle restanti quindici in tre Cantoni. Al potere centrale sarebbe rimasto un mero potere di coordinamento e di rappresentanza internazionale che, con ogni probabilità, non avrebbe retto alla prima "tempesta" economica o politica.
Luigi Sturzo era un prete cattolico di Caltagirone sostenuto da una straordinaria passione civile. Ricco di competenze - che acquisiva e sviluppava ogni giorno - si potrebbe dire che fosse il prototipo del politico perfetto. Colto ed intellettualmente attivo e curioso. Capace nelle attività di gestione della cosa pubblica e fantasioso nel prefigurare le vie dello sviluppo e della diffusione del benessere nella giustizia. Moralmente adamantino e totalmente privo d'interessi o anche solo di vanità esclusivamente personali. Fondò nel 1919 il Partito popolare italiano e prese, con cristiana disciplina, nel '26, la via dell'esilio, quando si accorse d'essere d'ostacolo alla conciliazione tra lo Stato italiano - rappresentato allora dal regime fascista - e la Chiesa di Roma.
A ventott'anni, nel 1899, entrò nel Consiglio comunale della sua città come consigliere di minoranza, dando prova d'intransigenza nel tentare di sventare le politiche - ora demagogiche ora inquinate da interessi particolari - delle maggioranze d'allora ed al tempo stesso di capacità di collaborazione, quand'era finalizzata all'interesse generale. Nel 1905 guidò i cattolici militanti al trionfo elettorale ed ottenne la carica di "prosindaco", essendo impedito dal suo stato clericale dal ricoprire l'ufficio di sindaco, ma esercitando di fatto, fin da subito, le funzioni di "primo cittadino". Rimase alla guida del governo comunale fino al 1920 e per tutto questo periodo le proposizioni teoriche e le azioni pratiche si alternano e si confondono, verificandosi l'un l'altra. Non esitò a prendere esempio da amministrazioni guidate dai socialisti, come quella di Milano, quando si trattava di promuovere il progresso culturale ed economico di tutte le fasce della popolazione, né si sottrasse alla sfida dell'Anci, l'associazione nazionale dei Comuni fondata dai "rossi", della quale divenne anzi animatore entusiasta diventandone vicepresidente nazionale. Al tempo stesso, si tenne ben alla larga da tentazioni assistenzialistiche che, anziché stimolare l'iniziativa privata e la mobilità sociale, avrebbero di fatto cristallizzato e devitalizzato la comunità. La sua concezione del Comune e delle altre comunità intermedie tra la persona singola e lo Stato - tutta incentrata sul principio di sussidiarietà - è quanto mai attuale, tutta centrata com'era sull'idea di un ente che promuove e protegge le libertà, impedendo ai prepotenti di prevaricare i deboli. Al tempo stesso, egli sostenne sempre il carattere nazionale dell'autonomismo. Anzi: lo propugnò come presidio essenziale dell'unità nazionale perché non consentendo a tutte le comunità infrastatali di sviluppare al meglio le proprie potenzialità di sviluppo economico e di coesione sociale, l'unità della Nazione verrebbe negata dai fatti prima ancora che dalla volontà degl'individui.
Già nel '19/'20 prefigurava un assetto territoriale in Regioni, Province e Comuni che, pur previsto dalla Costituzione del 1948, vedrà la luce in Italia soltanto attorno al 1970. Autodefinentesi ora "federalista" ora "regionalista", le "sue" Regioni, per l'ampiezza e la profondità dei poteri in primo luogo legislativi, erano più simili a quelle disegnate dalla Commissione dei Settantacinque (l'organismo interno all'Assemblea costituente del 1946/'47 che, guidato dal giurista Meuccio Ruini, elaborerà la prima bozza della Costituzione) che a quelle - più "striminzite" - fatte proprie dal testo della Costituzione entrato in vigore il I gennaio del '48. E non v'è dubbio che il "nuovo" titolo V somigli più a quello "abortito" di quello licenziato dall'Assemblea costituente. Ed infinitamente meno ai "Cantoni" di Miglio...
Dall'assetto territoriale dello Stato alla diminuzione dell'inquinamento dirigistico ed interventistico dell'economia fino alla prova di una "buona politica", vicina alle realizzazioni positive e verificabili e lontana anni luce dalle degenerazioni clientelari e partitocratiche, tutto ci comunica una viva attualità del messaggio sturziano.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

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