giovedì 23 ottobre 2008

Quel che mi piace di George W. Bush

Scilla (Italia), 23 ottobre 2008

Una delle presidenze più controverse della storia recente degli Stati Uniti d'America volge, dunque, al termine.
George W. Bush appare come isolato. Difficile trovare qualcuno che esprima stima nei suoi confronti. Il suo stesso partito, scegliendo McCain, suo vecchio rivale alle primarie del 2000 ed esponente di una corrente molto più moderata, laica e centrista del centrodestra statunitense, ha come preso le distanze dal suo capo, tentando di proporre all'elettorato una sorta di "rottura nella continuità".
Intendiamoci: l'ex governatore del Texas ci ha messo molto di suo per attrarre tanto disprezzo. Aveva sostituito Clinton all'insegna del "tiriamo i remi in barca e disinteressiamoci del mondo". Otto mesi dopo, il mondo s'interessò degli Stati Uniti facendoli oggetto del più colossale, anche per i realissimi "effetti speciali" di tipo cinematografico, attacco non militare ad uno Stato. Dopo qualche attimo di sbigottimento, il presidente si mostrò in grado di risollevare il morale della Nazione, richiamandola all'unità e promettendole giustizia. E divenendo, con Rudolph Giuliani, sindaco italoamericano e repubblicano di Nuova York, il simbolo della ferita e della ripresa della Nazione. Venne l'inevitabile guerra d'Afghanistan. Alla Casa Bianca e al Pentagono sedevano personaggi - Dick Cheney e Donald Rumsfeld - con una visione troppo limitata dell'impegno militare di una grande Nazione. Troppo concentrata, cioè, sull'obiettivo iniziale: rovesciare una classe dirigente e sostituirla con un'altra, almeno in parte, più affidabile. E troppo distratta rispetto all'altro, non meno importante, obiettivo: consolidare la conquista della pace, assicurando il controllo militare, poliziesco e giudiziario del territorio; promuovendo la ricostruzione infrastrutturale, economica e - soprattutto - politica e morale della Nazione "conquistata" e gettando, così, in maniera efficace, i semi della democrazia, della libertà, della laicità e dell'uguaglianza fra sessi, etnie, confessioni religiose...
Raggiunta, quindi, con l'iniziale collaborazione di classi dirigenti locali, una precaria stabilità in Afghanistan, si è considerato virtualmente raggiunto l'obiettivo dell'"importazione" nel citato Paese della "democrazia". E si è pensato di dover avviare le procedure per l'evitabilissima guerra in Iraq.
Una volta deciso che questa andava fatta, la si è fatta - a parte l'uso di motivazioni rivelatesi poi erronee se non fraudolente - partendo dall'illusorio presupposto che l'Iraq fosse un Paese simile all'Afghanistan, nel quale spezzoni di classe dirigente e di miliziani non vedevano l'ora di sbarazzarsi del regime al potere e di collaborare con i "nuovi alleati". L'inimicizia - pienamente giustificata dalla storia - nei confronti di Saddam Hussein, invece, era solo l'unico collante che univa movimenti divisi per tutto il resto: dalla politica alla religione; dall'etnia alle stesse solidarietà di tribù, clan, famiglie etc.; dalla concezione dello Stato agli interessi economici e geopolitici...
Da qui la scelta, sciagurata, di non dare ascolto a Colin Powell (già comandante militare durante la prima "guerra del Golfo" ed all'epoca della preparazione della seconda segretario di Stato, cioè ministro degli Affari esteri) ed ai capi militari del dipartimento della Difesa - politicamente retto da Rumsfeld - quando chiedevano, se proprio non fosse stato possibile rinunciare all'idea dell'invasione dell'Iraq, almeno di operarla attraverso un massiccio impiego di truppe, in modo da presidiare in maniera soddisfacente un Paese medio-grande e ben popolato nonché attraversato da incandescenti tensioni politiche, interetniche, interreligiose etc.
A questo primo, cruciale, errore se ne aggiunsero ben presto moltissimi altri, il più grave dei quali è stato certamente quello di sciogliere il già partito unico al potere (il Baath: "Rinascita", d'ispirazione nazionalista e social-statalista) e di privare di occupazione, da un giorno all'altro, migliaia di dirigenti e impiegati delle pubbliche amministrazioni, delle forze armate e delle forze dell'ordine. Dimenticando il principio fondamentale per il quale solo uno stato di fatto è peggiore di una dittatura, anche spietata: il vuoto di potere. Inutile aggiungere che gli ex militanti e simpatizzanti baathisti che avevano perso l'impiego pubblico sono stati fra i primi ad ingrossare le file della guerriglia, soprattutto quella di orientamento politico-religioso musulmano-sunnita. Quella musulmano-sciita, invece, trovò un interessatamente generoso sponsor nell'Iran komeinista. Acerrime nemiche l'una dell'altra, le due guerriglie hanno da subito contribuito - insieme con quella d'etnia curda - a rendere invivibile l'Iraq e impraticabili i progetti di ricostruzione posti in essere dalla Coalizione dei volenterosi alla quale - finito il conflitto ed ottenuto il mandato delle Nazioni Unite - prese parte anche l'Italia. Ho, ovviamente, schematizzato il discorso sulle "tre guerriglie" perché, naturalmente, molto lungo sarebbe il discorso sulla galassia di movimenti - spesso in contrasto armato l'uno con l'altro - che caratterizza ciascuna di esse.
Questi stati di fatto provocarono l'inizio di uno scollamento sempre maggiore tra la Nazione ed il suo capo, al finire del secondo ed ultimo mandato quotato come uno dei più impopolari della storia.
Eppure, di due cose mi sento di dover rendere merito a Gerge W. Bush.
La prima, dopo aver deciso di fare la guerra all'Iraq baathista, è di aver resistito alla formidabile pressione dell'opinione pubblica che invocava insistentemente un ritiro immediato delle truppe.
La seconda è quella di non essersi intestardito nel proseguire una strategia sbagliata - fondata su una relativamente ridotta presenza di truppe sul terreno - e di accettare i suggerimenti che venivano dal Congresso - in particolare da senatori come McCain - di rafforzare notevolmente la presenza armata nel Paese mesopotamico e di affidare a generali esperti e pragmatici - come Petraeus, prima, e Odierno, poi - la guida di una strategia che prevedesse, da un lato, un rafforzamento delle misure di sicurezza e di prevenzione e repressione del terrorismo e, dall'altro, un maggior coinvolgimento della popolazione nei processi di ricostruzione economica, infrastrutturale, politica ed amministrativa.
Nonostante tutto, io non sono ancora certo che la guerra al totalitarismo baathista iracheno sia stata un errore. Per il semplice fatto che uno stato di invasiva e sanguinaria dittatura può essere definita in ogni modo tranne che pace.
Quello di cui sono assolutamente certo, però, è che sarebbe stato un errore tragico e sciagurato abbandonare tutto a metà del guado e non tentare la strategia del surge (impeto, ondata) che - anche se ad un costo altissimo - si sta avviando a consegnarci un Iraq stabilizzato e, complessivamente, più libero e giusto di quello di Saddam Hussein.
Non tentare questa carta, infatti, e procedere ad un immediato ritiro di truppe, non avrebbe causato altro effetto che l'abbandono dell'Iraq al più ingovernabile dei caos possibili. Il rialzarsi della testa del drago qaedista. La ripresa in grande stile dei peggiori traffici antiumani - da quello di persone a quelli di narcotici, armi etc. La vittoria di tutti i singoli e le associazioni contrari alla libertà, alla distinzione tra religioso e politico, alla tolleranza di ogni diversità ed all'ordine e alla legalità nazionali ed internazionali.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

lunedì 20 ottobre 2008

E' morto Vittorio Foa. Grande politico, sindacalista, intellettuale

Tra le poche personalità dotate di un indiscusso rilievo morale ed intellettuale offerteci dal panorama politico della nostra Nazione, Foa era pienamente immerso nella vita della sinistra ma seppe dare prova di una coerenza e di un'onestà intellettuale non comuni in persone dalla formazione spiccatamente politica.
Giovanissimo, pagò la sua opposizione al governo fascista di Mussolini con lunghi anni di carcere, dal quale uscì soltanto con la caduta del regime.
Già entrato nella "terza età", sostenne la "svolta della Bolognina" ("trasformazione" del Pci in Pds) e "previde" quella di Fiuggi (passaggio dal Msi-Dn ad An).
Fra le sue parole, a Giovannipanuccio.blogspot.com piace citare le seguenti, che fa proprie in tutto e per tutto:
«Sarebbe ora di finirla con questa damnatio memoriae per cui la storia del Novecento ruota intorno ai comunisti, agli ex comunisti e ai comunisti o filocomunisti pentiti. C'è una grande storia che è stata rimossa: quella degli antitotalitari democratici e liberali – anticomunisti e antifascisti – che non hanno avuto bisogno di rivelazioni tardive, di omissioni generalizzate e di compiacenti assoluzioni»


Scilla (Italia), 20 ottobre 2008

Navigando in internet scopro della morte, a novantotto anni, di Vittorio Foa.
Torinese, classe "di ferro" 1910, giurista attratto dagli studi economici, nel 1935 è arrestato dalla polizia politica fascista e deferito al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Riconosciuto "colpevole" di aver denigrato la politica economica del governo Mussolini in una serie di articoli scientifici, è condannato a quindici anni di carcere. Vi esce soltanto nel '43, a seguito della caduta del governo fascista e del conseguente inizio del processo di "defascistizzazione" della legislazione e dell'amministrazione dello Stato.
Deputato all'Assemblea costituente per il Partito d'Azione e, poi, alla Camera per il Partito socialista, ha vissuto anche una lunga esperienza sindacale nella Cgil, insegnando, in seguito, storia contemporanea in alcuni atenei centroitaliani. Negli anni '60/'70 partecipa alla fondazione - per scissione dal Psi - del Partito socialista italiano d'unità proletaria e diventa la figura più autorevole dell'area politico-culturale "a sinistra del Pci e del Psi". Lavora con decisione per inserire quest'area in una prospettiva politica democratico-parlamentare, abbandonando ogni nefasta velleità rivoluzionaria. Va ricordato che sono gli anni dell'esplodere del terrorismo politico in Italia.
Ha sempre unito, in ogni sua attività, una "radicalità socialista" in tema di programmi economico-sociali ad un'altrettanto convinta cultura liberaldemocratica espressa in atteggiamenti teorici e pratici coerenti.
Torna in Parlamento nel 1987 venendo eletto senatore, come non iscritto, nelle liste del Partito comunista italiano. Sostiene il progetto occhettiano di riavvicinamento del Pci alla tradizione socialista-riformista e socialdemocratica, con la conseguente sostituzione della denominazione in quella di Partito democratico della sinistra.
Nel 1993, è tra i pochi intellettuali di rilievo a non gridare al risorgere del "pericolo fascista" per via del passaggio al ballottaggio per la prima elezione diretta del sindaco di Roma dell'allora segretario del Movimento sociale italiano-Destra nazionale Gianfranco Fini, poi superato da Francesco Rutelli. Intravede, anzi, in questa crescita impetuosa dell'unico partito non antifascista fra quelli stabilmente presenti nelle due Camere del Parlamento repubblicano fin dalla prima legislatura postcostituente, la possibilità di un ripensamento della propria identità da parte del partito medesimo - un po' sull'esempio del percorso già affrontato dalla maggioranza dei comunisti - ed una conseguente "estensione dei confini" della democrazia costituzionale.
Fra i molti pensieri ricchi di significato che lascia, ritengo anch'io giusto - come Corriere.it - riportare il seguente passaggio, autentica "condanna senz'appello" dell'Italia della comunicazione superficiale, delle frasi fatte, della confusione dei concetti e dello "scaricabarile".
"Sarebbe ora di finirla con questa damnatio memoriae per cui la storia del Novecento ruota intorno ai comunisti, agli ex comunisti e ai comunisti o filocomunisti pentiti. C'è una grande storia che è stata rimossa: quella degli antitotalitari democratici e liberali – anticomunisti e antifascisti – che non hanno avuto bisogno di rivelazioni tardive, di omissioni generalizzate e di compiacenti assoluzioni".

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

domenica 19 ottobre 2008

Blogosfera cresce...

Scilla (Italia), 19 ottobre 2008

Giovannipanuccio.blogspot.com dà il benvenuto nella Blogosfera al sito di Pietro Bellantoni. Un amico di una vita. Un concittadino. Una persona in gamba.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

mercoledì 15 ottobre 2008

La Lega Nord propone scuole segregate in base alla nazionalità. La mamma dei cretini...

Scilla (Italia), 15 ottobre 2008

Un antico adagio recita: "La mamma dei cretini è sempre incinta". Ne abbiamo avuto conferma appena ieri. La Lega Nord, infatti, s'è fatta promotrice dell'adozione di una mozione d'indirizzo di politica scolastica che mirerebbe ad istituire delle "classi d'inserimento" per gli alunni d'origine straniera che non abbiano ancora una sufficiente conoscenza della lingua italiana. Il partito settentrionalista, autentico sindacato etnico piuttosto che movimento d'idee e interessi comuni, non è nuovo a proporre bestialità simili. Quello che sgomenta, però, è come il Popolo della Libertà abbia disinvoltamente avallato la folle proposta leghista, quasi si trattasse solo di un modo per rendere più efficiente e funzionale la scuola italiana.
Il presidente dei deputati leghisti Cota ha dichiarato che la proposta del suo gruppo non mira a rendere più ardua bensì a favorire l'integrazione, consentendo ai bambini stranieri di studiare più approfonditamente la lingua italiana.
Di questa presa per i fondelli non è convinto, per primo, lo stesso Cota. La proposta, infatti, non nuova del repertorio leghista e di altri movimenti xenofobi, non costituisce altro che l'ennesimo atto di "solleticazione" degli istinti più riprovevoli di non marginali fasce dell'elettorato delle quali la Lega Nord ha bisogno per mantenere una considerevole media nazionale di voti. E questo, anche nell'ipotesi che la mozione, pur approvata, restasse - come spero e credo - pura e semplice lettera morta. I settentrionalisti, infatti, avrebbero gioco facile a dire ai loro: come promesso, noi ci abbiamo provato; purtroppo i partiti romani ci hanno messo il bastone tra le ruote; dateci più voti e la prossima volta ci riusciremo!
E' terribile come nessun governo nazionale - del pentapartito, del centrosinistra post-tangentopoli o del centrodestra berlusconiano - riesca ad adottare una politica compiuta, coerente e, soprattutto, sensata dell'immigrazione. O porte spalacate, indulti, tolleranza di ogni illegalità. O toni bestiali che, senza aumentare il tasso di legalità, ridanno fiato alle correnti xenofobe presenti in tutte le società, arrivando perfino a "sdoganare" taluni tabù, come quello, appunto, della segregazione.
Quello che non si rendono conto i latori di proposte simili è che l'unico modo per assicurare un futuro alla nostra società e anche di proteggere la nostra lingua, la nostra cultura e i principi generali del nostro ordinamento giuridico è, sì, da un lato, alzare la soglia della legalità diffusa e della "tolleranza zero" di ogni illegalità, nazionale o d'importazione. Ma, dall'altro, è favorire con ogni mezzo l'integrazione dei cittadini extracomunitari e neocomunitari, facendo loro capire che chi rispetta le leggi e le consuetudini del vivere civile può sentirsi in Italia a casa come qualsiasi italiano. Bisogna, sì, che vengano insegnate loro in maniera seria ed efficace la lingua e la cultura italiane. Ma questa serietà e questa efficacia non si ottengono separando gli allievi non italiani da quelli italiani. Anzi: questo è il modo migliore per farli sentire estranei, non accettati e per spingerli, quindi, ai margini della società, facile preda di grandi e piccole criminalità.
Siamo in tempi di vacche magre, ma è gran tempo che la classe dirigente - di tutti gli orientamenti politico-culturali - si doti al più presto di seri piani d'integrazione. A cominciare da corsi intensivi ed obbligatori per "i nuovi arrivati" di lingua, cultura, civiltà e principi del diritto italiani. Cosa che avviene in molti Paesi sviluppati.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

Parole (più o meno) famose (4)

Scilla (Italia), 15 ottobre 2008

L'ignoranza consapevole non è una colpa. L'ignoranza inconsapevole è una tragedia.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

domenica 5 ottobre 2008

"Per gente come te non c'è posto in Norvegia!"

Indovinate un po' a chi era indirizzata la frase del titolo.
Ad un sicario professionista? Ad un pedofilo? Ad un pirata della finanza, responsabile dell'impoviremento improvviso di migliaia di onesti e laboriosi risparmiatori?
Niente di tutto questo.
Destinatario del cortese invito è un prete. Un semplice prete. Della Chiesa di Norvegia, comunità cristiana di orientamento protestante.
Il competente vescovo ha ceduto alle pressioni di parte della comunità di Oppdal, concedendo un "periodo di riposo" al pastore in questione.
Il motivo di tanta ostilità nei confronti del ministro di culto? Incredibile a dirsi: il colore della sua pelle...

Scilla (Italia), 5 ottobre 2008

Da Corriere.it s'apprende che ad Oppdal, in Norvegia - comune di poco meno di seimilacinquecento abitanti, ricca stazione sciistica e primatista nazionale in quanto a numero (circa quarantacinquemila) di pecore allevate in un unico comune - un pastore, d'origine africana, della Chiesa di Norvegia (comunità cristiana d'orientamento protestante), primo "prete nero" nella storia del Paese nordeuropeo, s'è trovato a vivere in un ambiente gravemente ostile, a motivo del colore della sua pelle. In particolare, racconta Luigi Offeddu, molti parrocchiani gli avrebbero reso difficile, quando non impossibile, la celebrazione dei funerali di loro congiunti, facendolo oggetto di frasi del tipo: "per gente come te non c'è posto in Norvegia!" o azioni come, addirittura, calci contro la sua vettura privata.
Senza dubbio sconvolge come una comunità, anche se piccola e montana (e perciò collegata con maggior difficoltà al resto della Nazione e, quindi, del mondo), rigetti, come un organo trapiantato incompatibile, un correligionario chiamato ad amministrare il culto a motivo esclusivo del colore della sua pelle. La cosa, però, che forse turba di più è che il competente vescovo, anziché denunciare con vigore l'estrema ingiustizia del comportamento di taluni fedeli, ha ceduto alle loro pressioni, invitando il sacerdote ad astenersi dal celebrare funerali ed a ritrarsi, per un po', dalla comunità adducendo, come il giovane ha fatto, motivi di salute.
Joseph Moiba è un cittadino norvegese di trentasette anni. Nato in Sierra Leone da una famiglia cristiana da tre generazioni, s'è trasferito circa otto anni fa in Europa settentrionale, dove s'è laureato in teologia con il massimo dei voti, ottenendo anche una specializzazione ad Oslo.
Per fortuna, i colleghi del vescovo cedevole al ricatto razzista si sono sollevati contro la sua decisione ed hanno investito del caso il loro stesso capo che ha affermato: "Abbiamo molta strada da fare prima di poter dire che ci siamo sbarazzati di tutti i pregiudizi". Così come hanno espresso solidarietà a Joseph Moiba alcuni esponenti di spicco della società norvegese, dal Kristelig Folkeparti (Partito popolare cristiano) al miliardario Kjell Rokke.
A proposito di pregiudizi, anch'io devo denunciarne alcuni. Come quello di ritenere i popoli dell'Europa settentrionale - come quelli delle grandi città degli Stati Uniti e del Canada - complessivamente "più evoluti", non solo da un punto di vista economico-tecnologico ma anche, e sopratto, culturale, dei popoli di altre aree dell'Occidente.
Invece, probabilmente, questo fatto - impossibile da minimizzare anche tenendo conto della ridotta dimensione demografica della città che gli ha fatto da teatro - dovrebbe indurre molte comunità nazionali di "ceppo nordico", compresi alcuni settori degl'Italiani del Settentrione, ad interrogarsi sul loro, più o meno conscio, complesso di superiorità e la loro, conseguente, ansia di non contaminarsi. La Germania che, tra il 1933 ed il 1945, ha elevato oltre ogni più spaventoso parossismo questi sentimenti è, probabilmente, proprio interrogandosi sulla demoniaca eredità nazista, l'unica di tali Nazioni o parti di Nazioni ad aver fatto un approfondito esame della propria coscienza riuscendo, con estrema fatica, ad iniziare ad elaborare una nuova identità, più compatibile con il comune senso di umanità.
Ma le altre?

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

sabato 4 ottobre 2008

COMUNICAZIONE RELATIVA ALL'ARGOMENTO "USTICA"

Il contributo di Enrico Brogneri ha riaperto la discussione relativa all'articolo Si riapre il caso Ustica. Dopo un'intervista a Cossiga del febbraio scorso del 22 giugno 2008 (Giovanni Panuccio).

Catania. Come hai fatto ad arrivare a questo punto?

Scilla (Italia), 4 ottobre 2008

Continua la mia interessante e fruttuosa corrispondenza elettronica con l'esponente del Partito democratico, nonché mio amico personale, Aldo Franco.
Stavolta mi ha accennato alla tremenda situazione finanziaria che sta vivendo la sua città di Catania in questo periodo.
Accetterò con piacere i contributi di altri lettori, in particolare catanesi, invitando soprattutto i locali esponenti del Popolo della Libertà a contestare, se lo ritengono, le affermazioni di Franco.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

Caro giovanni, credimi è con immenso piacere che ogni tanto nei miei
ritagli di tempo, mi soffermo a disturbarti con qualche articolo o
commento, su tue iniziative e continuerò a farlo,tra l'altro in modo
del tutto casuale, i nostri commenti stanno avendo un grande riscontro
dall'attualità,hai visto mentre nell'agenda di governo arriva il
decreto sul federalismo fiscale....contemporaneamente si decide di dare
un contributo a fondo perduto per salvare la mia città dal dissesto
economico,questo perchè l'amministrazione di centrodestra con a capo il
sindaco scapagnini....ha distrutto nel giro di otto anni dal 2000 al
2008 tutto quello che di buono si era fatto.
E' una sensazione
bruttissima percorrere strade al buio....vedere l'immondizia
ammucchiata nelle strade.....si è scelto di intervenire per salvare una
città dal tracollo che avrebbe scaturito immensi problemi dal punto di
vista sociale,ma ho il timore che quest'intervento sia solo un
palliativo,140 milioni di euro sono nulla quando il deficit in bilancio
è di 357 milioni di euro,senza considerare i debiti fuori bilancio si
arriva alla cifra astronomica di un miliardo di euro,sembra essere un
secondo caso alitalia,ad esser sincero avrei preferito leggendolo in
modo egoistico la dichiarazione di dissesto auspicando nel giro di
qualche anno un ricambio generazionale dell'attuale classe dirigente,ti
farò sapere come si risolverà alla fine la vicenda,sperando che alla
fine catania riesca a risollevarsi....ciao e a presto!

Aldo Franco

venerdì 3 ottobre 2008

Poste Italiane. Finirà la grande vergogna silenziosa?

Ogni "salto alla Posta" è sempre la stessa storia.
Non importa che l'ufficio sia grande o piccolo, periferico o centrale...
Attese interminabili anche quando ci sono, praticamente,
un solo utente e gl'impiegati. Uno o due addetti che devono occuparsi di tutte le mansioni, comprese quelle non da sportello. Inevitabile distrazione degli addetti stessi che, quando fanno un errore, o lo imputano direttamente a te o ti convincono che è un errore banale, lasciandoti mandare il telegramma col cognome del mittente errato...
Ma se proprio - come parrebbe - non ci sono soldi per nuove assunzioni, non è forse arrivato il momento di approntare dei sistemi meccanizzati per la maggior parte delle pratiche?

Scilla (Italia), 3 ottobre 2008

Ogni "salto alla Posta" è sempre la stessa storia. Non importa che l'ufficio sia grande o piccolo, periferico o centrale...
Attese interminabili anche quando ci sono, praticamente, un solo utente e gl'impiegati. Uno o due addetti che devono occuparsi di tutte le mansioni, comprese quelle non da sportello. Inevitabile distrazione degli addetti stessi che, quando fanno un errore, o lo imputano direttamente a te o ti convincono che è un errore banale, lasciandoti mandare il telegramma col cognome del mittente errato etc.
Molte volte, certo, soprattutto in concomitanza con l'erogazione di pensioni e stipendi o con la scadenza del termine ultimo per effettuare il pagamento di un tributo, l'ufficio postale, per l'affollamento, si trasforma in una specie di curva dei tifosi ultra. Salvo che per il numero di addetti che, ovviamente, rimane invariato, così come la quantità di compiti "extrasportello" che devono comunque adempiere. La loro concentrazione, invece, rimane alta finché può - soprattutto, comprensibilmente, quando si tratta di erogare retribuzioni - essendo comunque soggetta ad un comprensibilissimo (e umanissimo) calo progressivo e difficilmente arrestabile.
Quando non decidi che per ritrovare un clima simile aspetterai la prossima partita della tua squadra del cuore o, data la concomitanza con l'ultimo giorno utile alla tua pratica, non puoi proprio permetterti di prendere questa decisione può anche capitarti che, atteso con pazienza il tuo turno per un tempo che hai perfino rinunciato a misurare, l'addetto ti chieda in anticipo se hai la somma minima occorrente al servizio che intendi richiedere perché, in caso contrario, dovrai procurartela in quanto l'ufficio non dispone, in quel momento, dell'eventuale resto. Dato un rapido sguardo ai volti degli altri utenti comprensibilmente spazientiti e desiderosi soltanto che tu sparisca per poter prendere il tuo posto - come se si trattasse dell'unico bicchier d'acqua nel deserto per cento persone assetate - capisci che la domanda "qualcuno ha da cambiare?" non è proprio il caso di farla e allora ti allontani dall'ufficio postale per bere un caffè del quale non hai la minima voglia o aggiungere del carburante al tuo serbatoio quasi pieno al solo scopo di ottenere che il barista o il benzinaio ti diano, finalmente, l'agognato resto del tuo "centone" (veramente, ormai, è un "centino". Ma questa è un'altra storia...). Di fare non meno di altri tre quarti d'ora di fila sei ormai psicologicamente pronto. Ma è tutt'altro che sicuro che, una volta completata l'operazione di cambio banconota e di rientro nell'ufficio, non scoprirai che non sono più accettati - data l'ora - ulteriori clienti.
Questo capita nelle città e nei paesi, nei grandi e nei piccoli quartieri. In alcuni casi, però, si supera anche il parossismo. Esistono, infatti, uffici tutt'altro che succursali nei quali, anche dopo lavori di ristrutturazione che hanno dato un'immagine di mutamento inversamente proporzionale alla loro durata, non è stata nemmeno approntata la macchina per l'erogazione dei biglietti numerati che, tenuto conto anche del fatto che alcuni sportelli hanno una specializzazione di servizi, consentono almeno di aspettare il proprio turno con una certa libertà di movimento, all'interno e nelle immediate vicinanze dell'ufficio, senza doverlo difendere come se si trattasse della ridotta di Giarabub.
Ora, negli anni passati Poste Italiane ha affrontato vari processi di risanamento. I risultati più visibili al pubblico, però, sono stati solo quelli più negativi che solitamente accompagnano questi processi. Riduzione all'osso del personale. Conseguente selvaggia chiusura di uffici anche importanti. Precarizzazione e, quindi, dequalificazione del già esiguo personale rimasto. Di significative riduzioni degli stipendi di amministratori e dirigenti, invece, non mi pare che si sia mai parlato.
La disgraziata abitudine degl'Italiani ad accettare come normale anche la situazione più scandalosa - autentico flagello per la qualità media della vita e per lo stesso sviluppo economico - non può però essere il motivo sufficiente a far perdurare questo incredibile stato di fatto. E' evidente che il numero degli attuali addetti di Poste Italiane, soprattutto per quanto riguarda i servizi erogati direttamente al pubblico, è gravemente insufficiente. Invocare nuove assunzioni, forse, data la tendenza delle spese per il personale a fagocitare le altre voci - a cominciare dall'innovazione - e a creare debito, è probabilmente ingenuo se non utopistico. Quel ch'è certo, però, è che così non si può andare avanti.
Possibile che le tecnologie dell'ormai volgente al tramonto 2008 non consentano di approntare, su tutto il territorio nazionale, una rete capillare di sportelli telematici in grado di erogare gran parte dei servizi - dal "postamat" al pagamento delle bollette, dai telegrammi all'invio di raccomandate - per i quali, fino ad oggi, pare indispensabile la presenza di un essere umano?

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

mercoledì 1 ottobre 2008

Federalismo fiscale e Mezzogiorno. Cresce il dibattito politico-culturale nell'imminenza dell'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione

Un documento dell'associazione "Italiani per l'Europa", vicina al Partito democratico catanese, s'inserisce nel dibattito sul federalismo, con particolare riguardo ai cruciali aspetti economico-finanziari.
"La sfida del federalismo, anche fiscale, se correttamente gestita, può costituire l'occasione per accrescere il capitale istituzionale e sociale del Mezzogiorno".


Scilla (Italia), I ottobre 2008

Aldo Franco, già noto ai lettori di giovannipanuccio.blogspot.com, mi ha segnalato un interessante documento dell'associazione "Italiani per l'Europa" - nata in ambienti catanesi del Partito democratico e presieduta da Salvatore Raiti, ex deputato e padre fondatore, come Franco, del Pd - a proposito del possibile impatto sul Mezzogiorno e le Isole dell'imminente adozione del cosiddetto federalismo fiscale come forma e sostanza organizzativa del sistema finanziario della Repubblica italiana. Tale adozione, anche se probabilmente percepita da larghi strati dell'opinione pubblica - soprattutto meridionale ed insulare - come una sorta di "capriccio" della Lega Nord, è, in realtà, costituzionalmente obbligata, in quanto stabilita dall'articolo 119 della Costituzione, come sostituito dalla legge costituzionale 3/2001, meglio nota come "riforma del titolo V". Tale riforma fu approvata, in fretta e furia, al fotofinish della XIII legislatura repubblicana, con i soli voti favorevoli della maggioranza parlamentare di allora, che andava dai centristi fuorusciti dal centrodestra, guidati da Mastella e Loiero - che, tradendo sostanzialmente la volontà dei loro elettori, avevano costituito l'Udr prima (con Cossiga) e l'Udeur poi, consentendo ai Ds, al Ppi ed ai loro alleati originari di rimanere al governo - fino ai comunisti di Cossutta e Diliberto i quali, staccandosi da Rifondazione comunista, s'erano opposti invano alla caduta del governo Prodi I.
Ho trovato il documento - intitolato "Federalismo e Mezzogiorno" - largamente condivisibile e molto ben argomentato.
Da apprezzare è, soprattutto, l'assenza di ogni qualsivoglia strumentalizzazione che altri politici meridionali e insulari di centrosinistra stanno cavalcando, tentando - piuttosto invano, per la verità - di presentare l'adottando federalismo fiscale come una sorta di seconda spoliazione del Mezzogiorno e delle Isole ad opera dei "nuovi piemontesi" leghisti e liberalpopolari.
Il documento sottolinea, in primo luogo, come la riforma in preparazione non sia affare privato del governo o, tutt'al più, del tandem governo-Parlamento ma stia venendo alla luce con il contributo decisivo delle Regioni e degli enti locali. A cominciare dalla deliberazione della Conferenza dei presidenti delle Giunte regionali e delle Province autonome di Treno e Bolzano del febbraio 2007 nella quale le Regioni e le Province autonome si candidano al ruolo di sedi privilegiate del coordinamento e della regolazione della finanza territoriale e confermano l'imprescindibile necessità dell'approntamento di un fondo perequativo (già previsto, per altro, dal citato articolo 119 riformato) capace di minimizzare l'impatto del bisecolare divario Nord-Sud sulla fruizione dei servizi di competenza regionale e locale da parte dei cittadini.
A chi si chiede come le Regioni meridionali ed insulari possano accettare principi simili, forieri, potenzialmente, di riduzioni delle risorse economiche a loro disposizione, il documento risponde citando vari approfonditi studi che dimostrano come a tali Regioni non siano, molto spesso, mancate le risorse - fossero esse d'origine statale o comunitaria - quanto, piuttosto, la capacità d'impiegarle nel modo migliore.
Ed è qui che arrivano le note più dolenti dell'interessante contributo, anche se quest'ultimo è, comprensibilmente, venato d'ottimismo, com'è "obbligatorio" aspettarsi da dei buoni politici.
Il documento di "Italiani per l'Europa", pur paventando - quasi per esorcizzarla - la possibilità che dalle nuove riforme possano scaturire deleterie ed anacronistiche contrapposizioni tra Settentrione e Meridione - con conseguente rischio di aumento del divario economico tra le due "macroaree" della Repubblica ma anche di un impoverimento complessivo della qualità della vita nell'intera Nazione che non può certo essere auspicata neanche dai settentrionali - concentra la sua attenzione sugli aspetti positivi dell'innovazione, a cominciare dalla responsabilizzazione maggiore delle classi dirigenti. Viene citata la possibilità, altresì, che determinati fondi dell'Unione europea potrebbero supplire più che efficacemente il diminuito trasferimento di risorse statali. E' sottolineato, inoltre, come la nuova realtà autonomistica non ha certo annullato la possibilità per lo Stato di indicare e perseguire grandi obiettivi nazionali di sviluppo, a cominciare dal miglioramento delle infrastrutture. Solo che tutto ciò richiederebbe la presenza in loco di una classe dirigente - politica, amministrativa, imprenditoriale - della cui proporzionalità al compito è più che lecito dubitare. Un compito che richiede fantasia, abnegazione, onestà pressoché assoluta, capacità - soprattutto - d'immaginare programmi realizzabili e di perseguirli fino in fondo, rendendo partecipi - almeno a livello informativo - le opposizioni di oggi che potrebbero diventare le maggioranze di domani venendo, quindi, chiamate a completare il lavoro iniziato da altri. Parte del compito, dunque, è certamente la capacità di trattare in maniera affidabile con le autorità statali e comunitarie, prendendo impegni che poi ci si dimostrerà in grado di mantenere.
Da apprezzare, inoltre, l'invocazione di forme sempre più incisive di alleggerimento della pressione burocratica sull'efficienza della vita sociale ed economica e di liberalizzazione dei servizi.
Grande assente del documento, infine, anche se è indirettamente presente quando, fra le cose che più mancano al Mezzogiorno e alle Isole - accanto a beni pubblici, infrastrutture, ricerca - è citata anche la legalità, è il vero nemico della loro crescita e del loro sviluppo. La criminalità organizzata. Cosa nostra, ndrangheta, camorra, sacra corona unita. Con la partecipazione straordinaria - e sempre più inquietante - dei sodalizi "d'importazione". Mafia: in tutte le sue forme e denominazioni. Le classi dirigenti meridionali dovrebbero essere in prima fila a pretendere uno Stato "feroce e spietato" nei confronti di queste realtà. E invece sentiamo solo qualche frase di circostanza in occasione dell'ennesimo lutto. In attesa del prossimo.

Giovanni Panuccio
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