giovedì 23 ottobre 2008

Quel che mi piace di George W. Bush

Scilla (Italia), 23 ottobre 2008

Una delle presidenze più controverse della storia recente degli Stati Uniti d'America volge, dunque, al termine.
George W. Bush appare come isolato. Difficile trovare qualcuno che esprima stima nei suoi confronti. Il suo stesso partito, scegliendo McCain, suo vecchio rivale alle primarie del 2000 ed esponente di una corrente molto più moderata, laica e centrista del centrodestra statunitense, ha come preso le distanze dal suo capo, tentando di proporre all'elettorato una sorta di "rottura nella continuità".
Intendiamoci: l'ex governatore del Texas ci ha messo molto di suo per attrarre tanto disprezzo. Aveva sostituito Clinton all'insegna del "tiriamo i remi in barca e disinteressiamoci del mondo". Otto mesi dopo, il mondo s'interessò degli Stati Uniti facendoli oggetto del più colossale, anche per i realissimi "effetti speciali" di tipo cinematografico, attacco non militare ad uno Stato. Dopo qualche attimo di sbigottimento, il presidente si mostrò in grado di risollevare il morale della Nazione, richiamandola all'unità e promettendole giustizia. E divenendo, con Rudolph Giuliani, sindaco italoamericano e repubblicano di Nuova York, il simbolo della ferita e della ripresa della Nazione. Venne l'inevitabile guerra d'Afghanistan. Alla Casa Bianca e al Pentagono sedevano personaggi - Dick Cheney e Donald Rumsfeld - con una visione troppo limitata dell'impegno militare di una grande Nazione. Troppo concentrata, cioè, sull'obiettivo iniziale: rovesciare una classe dirigente e sostituirla con un'altra, almeno in parte, più affidabile. E troppo distratta rispetto all'altro, non meno importante, obiettivo: consolidare la conquista della pace, assicurando il controllo militare, poliziesco e giudiziario del territorio; promuovendo la ricostruzione infrastrutturale, economica e - soprattutto - politica e morale della Nazione "conquistata" e gettando, così, in maniera efficace, i semi della democrazia, della libertà, della laicità e dell'uguaglianza fra sessi, etnie, confessioni religiose...
Raggiunta, quindi, con l'iniziale collaborazione di classi dirigenti locali, una precaria stabilità in Afghanistan, si è considerato virtualmente raggiunto l'obiettivo dell'"importazione" nel citato Paese della "democrazia". E si è pensato di dover avviare le procedure per l'evitabilissima guerra in Iraq.
Una volta deciso che questa andava fatta, la si è fatta - a parte l'uso di motivazioni rivelatesi poi erronee se non fraudolente - partendo dall'illusorio presupposto che l'Iraq fosse un Paese simile all'Afghanistan, nel quale spezzoni di classe dirigente e di miliziani non vedevano l'ora di sbarazzarsi del regime al potere e di collaborare con i "nuovi alleati". L'inimicizia - pienamente giustificata dalla storia - nei confronti di Saddam Hussein, invece, era solo l'unico collante che univa movimenti divisi per tutto il resto: dalla politica alla religione; dall'etnia alle stesse solidarietà di tribù, clan, famiglie etc.; dalla concezione dello Stato agli interessi economici e geopolitici...
Da qui la scelta, sciagurata, di non dare ascolto a Colin Powell (già comandante militare durante la prima "guerra del Golfo" ed all'epoca della preparazione della seconda segretario di Stato, cioè ministro degli Affari esteri) ed ai capi militari del dipartimento della Difesa - politicamente retto da Rumsfeld - quando chiedevano, se proprio non fosse stato possibile rinunciare all'idea dell'invasione dell'Iraq, almeno di operarla attraverso un massiccio impiego di truppe, in modo da presidiare in maniera soddisfacente un Paese medio-grande e ben popolato nonché attraversato da incandescenti tensioni politiche, interetniche, interreligiose etc.
A questo primo, cruciale, errore se ne aggiunsero ben presto moltissimi altri, il più grave dei quali è stato certamente quello di sciogliere il già partito unico al potere (il Baath: "Rinascita", d'ispirazione nazionalista e social-statalista) e di privare di occupazione, da un giorno all'altro, migliaia di dirigenti e impiegati delle pubbliche amministrazioni, delle forze armate e delle forze dell'ordine. Dimenticando il principio fondamentale per il quale solo uno stato di fatto è peggiore di una dittatura, anche spietata: il vuoto di potere. Inutile aggiungere che gli ex militanti e simpatizzanti baathisti che avevano perso l'impiego pubblico sono stati fra i primi ad ingrossare le file della guerriglia, soprattutto quella di orientamento politico-religioso musulmano-sunnita. Quella musulmano-sciita, invece, trovò un interessatamente generoso sponsor nell'Iran komeinista. Acerrime nemiche l'una dell'altra, le due guerriglie hanno da subito contribuito - insieme con quella d'etnia curda - a rendere invivibile l'Iraq e impraticabili i progetti di ricostruzione posti in essere dalla Coalizione dei volenterosi alla quale - finito il conflitto ed ottenuto il mandato delle Nazioni Unite - prese parte anche l'Italia. Ho, ovviamente, schematizzato il discorso sulle "tre guerriglie" perché, naturalmente, molto lungo sarebbe il discorso sulla galassia di movimenti - spesso in contrasto armato l'uno con l'altro - che caratterizza ciascuna di esse.
Questi stati di fatto provocarono l'inizio di uno scollamento sempre maggiore tra la Nazione ed il suo capo, al finire del secondo ed ultimo mandato quotato come uno dei più impopolari della storia.
Eppure, di due cose mi sento di dover rendere merito a Gerge W. Bush.
La prima, dopo aver deciso di fare la guerra all'Iraq baathista, è di aver resistito alla formidabile pressione dell'opinione pubblica che invocava insistentemente un ritiro immediato delle truppe.
La seconda è quella di non essersi intestardito nel proseguire una strategia sbagliata - fondata su una relativamente ridotta presenza di truppe sul terreno - e di accettare i suggerimenti che venivano dal Congresso - in particolare da senatori come McCain - di rafforzare notevolmente la presenza armata nel Paese mesopotamico e di affidare a generali esperti e pragmatici - come Petraeus, prima, e Odierno, poi - la guida di una strategia che prevedesse, da un lato, un rafforzamento delle misure di sicurezza e di prevenzione e repressione del terrorismo e, dall'altro, un maggior coinvolgimento della popolazione nei processi di ricostruzione economica, infrastrutturale, politica ed amministrativa.
Nonostante tutto, io non sono ancora certo che la guerra al totalitarismo baathista iracheno sia stata un errore. Per il semplice fatto che uno stato di invasiva e sanguinaria dittatura può essere definita in ogni modo tranne che pace.
Quello di cui sono assolutamente certo, però, è che sarebbe stato un errore tragico e sciagurato abbandonare tutto a metà del guado e non tentare la strategia del surge (impeto, ondata) che - anche se ad un costo altissimo - si sta avviando a consegnarci un Iraq stabilizzato e, complessivamente, più libero e giusto di quello di Saddam Hussein.
Non tentare questa carta, infatti, e procedere ad un immediato ritiro di truppe, non avrebbe causato altro effetto che l'abbandono dell'Iraq al più ingovernabile dei caos possibili. Il rialzarsi della testa del drago qaedista. La ripresa in grande stile dei peggiori traffici antiumani - da quello di persone a quelli di narcotici, armi etc. La vittoria di tutti i singoli e le associazioni contrari alla libertà, alla distinzione tra religioso e politico, alla tolleranza di ogni diversità ed all'ordine e alla legalità nazionali ed internazionali.

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Giovanni,
nella tua disamina dei fatti significativi che hanno caratterizzato la lunga permanenza di Bush alla guida degli Stati Uniti hai scordato di citare la crisi finanziaria, paragonata da molti addetti ai lavori alla terribile crisi del ’29, che negli ultimi mesi ha reso totalmente instabili i mercati mondiali e rischia di gettare i paesi industrializzati in un periodo di recessione dalla durata e dalle conseguenze imprevedibili. Questa crisi, come tutti abbiamo letto, ha avuto origine proprio negli USA ed è stata determinata da una crescita esponenziale, nel corso degli anni passati, della immissione nei mercati da parte di banche d’affari anche molto solide ed importanti, di strumenti finanziari oltremodo fantasiosi e caratterizzati da una estrema fragilità che nel corso del tempo ha condotto al collasso. Il governo degli Stati Uniti ha cercato di arginare la crisi salvando alcune banche prossime al fallimento e proponendosi come “acquirente” (con i soldi dei contribuenti) dei titoli infetti presenti nei mercati. In ogni caso il comportamento tenuto dal governo Bush è stato assolutamente contraddittorio perché da un lato, in linea con lo spirito liberista, non ha esercitato alcun controllo preventivo sulle operazioni finanziarie, in molti casi fraudolente, delle banche d’affari e delle società finanziare, dall’altro però si propone di salvare il salvabile facendo intervenire direttamente lo Stato attraverso una massiccia immissione di denaro pubblico. Tutto questo, unitamente alla lunga serie di errori strategici e politici relativi alla gestione della guerra al terrorismo e al processo di democratizzazione dell’Iraq, che tu stesso hai ricordato nel tuo articolo, rendono (secondo me) fallimentare il periodo di Bush alla guida della Casa Bianca. Un presidente degli Stati Uniti d’America, deve avere sempre presente il fatto che i suoi interventi (o non interventi) in campo politico-militare ed economico-finanziario, hanno delle ripercussioni mondiali le cui conseguenze possono portare benefici (maggiore sicurezza, sviluppo economico, stabilità) oppure creare distruzioni; secondo me durante il governo Bush queste ripercussioni sono quasi sempre state negative. Ma forse è solo sfortunato!

Antonio Borrielli

Giovanni Panuccio ha detto...

Ciao, Antonio!
Tra le tante analisi piovute (dal cielo?!) in questi mesi di ricerca delle cause della crisi economico-finanziaria (o, per rispettare l'ordine cronologico, finanziario-economica) è stata avanzata l'ipotesi che vi abbia contribuito l'inevitabile distrazione di persone e mezzi dell'Fbi e di altri enti investigativi e repressivi dall'attenzione verso le attività economico-finanziarie a quelle per far fronte all'emergenza terrorismo internazionale.
Confesso di non possedere le competenze in campo di scienze economico-finanziarie che mi consentirebbero di avventurarmi nell'analisi delle cause di questa crisi o nella ricerca delle possibili soluzioni.
A lume di naso, direi che la principale causa sia nell'impossibilità di operare riforme necessarie ma impopolari in tempi di travolgente crescita dell'economia, della quantità e qualità dell'occupazione e del benessere generalizzato.
Perché non va dimenticato che soprattutto questo sono stati gli Stati Uniti di Reagan, G.H.W. Bush, Clinton e G.W. Bush.
Altra certezza che mi sento di ricavare è che né il capitalismo né il liberismo sono morti, mentre il socialcomunismo è non solo morto ma in via di sepoltura.
L'esperienza può suggerire dei correttivi, delle integrazioni; l'adozione di nuove regole ragionevoli e, soprattutto, di meccanismi che le facciano osservare e puniscano severamente - anche nel portafoglio - i trasgressori.
Staremo a vedere, ma non è detto che le previsioni più fosche siano destinate ad avverarsi.

Giovanni Panuccio