Ed anziché indicare le cause della crisi della segreteria Veltroni e le possibili vie d'uscita, ritira fuori la "puzza sotto il naso" ed il "complesso di superiorità" tipici di una certa sinistra cattolica più ancora che dei comunisti...
Segno che la democrazia italiana è davvero in pericolo. Non per colpa di Berlusconi. Ma per l'incapacità dei suoi principali avversari di proporre un'alternativa, innanzitutto programmatica, chiara e credibile.
Scilla (Italia), 23 febbraio 2009
Dario Franceschini è il nuovo segretario del Partito democratico. Un segretario "residuale", nel senso di esser stato eletto - dall'assemblea costituente del partito - esclusivamente per "coprire" il periodo restante, da qui a metà ottobre di quest'anno, per la conclusione ordinaria del mandato del volontariamente dimissionario Veltroni. La scelta del "segretario transitorio" era in un certo senso obbligata, nonostante autorevoli pareri contrari come quello di Massimo Cacciari, data l'imminenza del rinnovo del Parlamento europeo e degli organi elettivi di moltissime amministrazioni provinciali e comunali. Oltre che del referendum per la modifica della legge elettorale di deputati e senatori in senso bipartitico che, rinviato un anno fa per l'intervenuto scioglimento anticipato delle Camere, dovrà svolgersi entro il prossimo 15 giugno. Ed a nessun partito che non consideri la propria funzione come esclusivamente di testimonianza si può onestamente chiedere di "mettere in piazza" i propri "panni sporchi" attraverso un percorso congressuale da tutti prefigurato come lacerante e che avrebbe avuto il proprio culmine nell'elezione primaria del nuovo segretario proprio a ridosso dei citati, e cruciali, appuntamenti istituzionali.
Ma come si è giunti alle dimissioni volontarie di Walter Veltroni, segretario eletto il 14 ottobre 2007 attraverso partecipate elezioni primarie aperte a chiunque avesse dichiarato di aderire al progetto politico-culturale del Partito democratico?
Probabilmente, i germi della crisi stessa erano presenti fin dall'inizio dell'esperienza che condusse all'elezione di Veltroni, coincidente con la vera e propria fondazione del nuovo partito, nato principalmente dalla confluenza in esso dei Democratici di sinistra - partito che radunava la maggioranza di coloro che avevano militato nel Partito comunista italiano - e di Democrazia è Libertà-La Margherita - partito per circa tre quinti composto da cattolici che erano appartenuti, prima, alle sinistre interne della Democrazia cristiana e, poi, al secondo Partito popolare italiano e per i restanti due quinti da cattolici e no affacciatisi da poco alla politica o provenienti da altre esperienze tendenzialmente riconducibili al centrosinistra.
Chi scrive pensa che tali errori siano facilmente sintetizzabili dalla formula del "coraggio a metà", in un certo senso efficacemente individuato dall'attore Maurizio Crozza, il più noto imitatore dell'ex segretario del Pd, nell'espressione "ma anche" con la quale il "suo" Veltroni infarciva fino all'inverosimile ogni suo discorso.
Cito, in estrema sintesi e un po' alla rinfusa, quelli che secondo me sono i vizi che hanno quasi fatalmente condotto all'esito odierno. Annunciare la nascita di un partito nuovo (attenzione: non di un nuovo partito), governato da regole nuove a cominciare dall'"importazione" dai tanto vituperati Stati Uniti d'America del metodo di scelta del capo noto come elezione primaria, e poi inquinare queste regole nuove con logiche vecchie come il vietare a Bersani e a Finocchiaro di candidarsi in concorrenza a Veltroni, perché i democratici di sinistra non avrebbero potuto sopportare di sostenere più di un candidato, dimostrando subito che l'unione di elettorati, militanze e culture politiche era in realtà un'alleanza fra apparati. Abbinare all'elezione primaria del capo quella dell'assemblea che avrebbe dovuto individuare i principi e le regole fondamentali del nuovo partito ed indirizzarne la prima fase e poi rendere quest'assemblea numerosa come un Comune italiano neanche tanto piccolo - cosa che impediva di per sé che l'organismo acquisisse una sua soggettività politica, fatta di vita interna e di possibilità di far emergere, tema per tema, maggioranze e minoranze - ed impedire che tra i candidati di ciascuna lista si potesse esprimere un voto di preferenza, tanto per evitare sorprese rispetto agli equilibri già largamente predeterminati nelle "segrete stanze".
Ad ogni modo Veltroni ricevette un largo consenso ed avrebbe avuto, di conseguenza, tutto il diritto di sentirsi il capo effettivo ed effettivamente direttivo della "nuova" forza politica, agendo di conseguenza. Di fronte alla crisi, dapprima latente poi esplosa, del governo Prodi II, Veltroni utilizzò a mio parere bene questo potere annunciando che il nuovo partito si sarebbe presentato da solo alle successive elezioni. Scelta certamente di "rottura" rispetto alla tradizione antica e recente della politica italiana, ma in un certo senso anche obbligata vista l'esperienza dell'incosciente e suicida maggioranza che (non) aveva sostenuto Prodi, dato soprattutto che il Partito democratico voleva presentarsi come una forza capace di governare la Nazione e non soltanto di vincere le elezioni generali. Evidentemente, però, il maanchismo è una tentazione alla quale Veltroni non sa proprio resistere e l'innovativo "corriamo da soli" diventa il nefasto "corriamo da soli, ma anche con Di Pietro". Consentendo così che una formazione protestataria e residuale come "Italia dei valori" diventasse il punto di riferimento di quanti, delusi dai propri partiti di tradizionale affidamento Ds e Rifondazione comunista, non volevano favorire il Popolo della Libertà non votando o dando un voto "inutile" a liste minori di estrema sinistra.
In questo quadro, il Partito democratico non riesce ad esprimere una posizione chiara e, soprattutto, unitaria, su pressoché nessun tema rilevante dell'agenda politica e si trascina stanco fra incertezze ed accuse di "autoritarismo imminente" fino alla batosta di metà febbraio nelle elezioni sarde, con il drastico calo dei consensi al partito e l'uscita di scena del candidato del "centrosinistra plurale" Soru, editore del quotidiano storico della sinistra legata alla tradizione comunista "L'Unità" e da molti accreditato come valida alternativa alla segreteria Veltroni.
Giungiamo quindi all'elezione dell'ex democristiano di sinistra Franceschini con le modalità ricordate all'inizio. Il nuovo segretario galvanizza la platea annunciando che il giorno dopo si recherà in visita a Ferrara dall'anziano padre, già partigiano cattolico della Resistenza all'occupazione tedesca e deputato democristiano, per prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione ponendo le mani proprio sulla prima copia della Legge fondamentale posseduta da quest'ultimo. Davvero una scelta nobile e, oltre che per l'alto valore simbolico ed evocativo, ricca di significato, soprattutto per rendere maggiormente nota la concezione della politica posseduta da Franceschini ed iniziare a prefigurare, così, le linee della sua azione di guida del maggior partito d'opposizione. Peccato solo che il nuovo segretario abbia commesso l'errore di rovinare questo momento intenso e quasi commovente accusando, per l'ennesima volta da un quindicennio, l'attuale presidente del Consiglio di considerare un impaccio il Parlamento, il presidente della Repubblica e, in generale, i principi e gli istituti di garanzia previsti dalla Costituzione, mirando a concentrare nelle proprie mani tutti i poteri pubblici. Solo che Franceschini non si accorge che così facendo svilisce proprio quella Costituzione che dichiara di venerare. Perché se anche Berlusconi avesse veramente di quelle mire - e non nego che molte azioni ed affermazioni di quest'ultimo facciano propendere per quest'ipotesi - chi sta volontariamente e solennemente giurando fedeltà alla Costituzione dovrebbe anche, coerentemente, manifestare fiducia nel fatto che la Costituzione stessa possiede tutti gli anticorpi atti ad impedire quest'esito. E' sbagliato il comportamento franceschiniano anche perché suggerisce un'equivalenza tra la fedeltà alla Costituzione e l'indisponibilità a proporre o accettare modifiche ad alcune norme della stessa, veicolando perfino l'idea che criticare una o più individuate disposizioni della Legge fondamentale sia illegittimo se non, addirittura, potenzialmente eversivo! Dimenticando che l'esigenza dell'adeguamento ai tempi delle "regole del gioco" è sempre stata presente negli stessi costituenti che, non a caso, hanno previsto un'apposita procedura per l'integrazione e la modifica della Costituzione ed ha sempre accompagnato il dibattito giuspubblicistico, costituzionalistico e politologico anche quando quello politico e mediatico ne erano momentaneamente distratti.
Ma l'aspetto più grave dell'uscita del neosegretario è l'accreditamento dell'idea nefasta che la Costituzione è "cosa nostra", proprietà esclusiva delle forze di centrosinistra. L'idea che il popolo non abbia la maturità per scegliere i propri rappresentanti e governanti e che, quindi, "minoranze illuminate" - inutile dirlo: guidate dal Partito democratico - siano le uniche in grado di guidare la Nazione verso l'inveramento dei valori costituzionali. E se questo non succede perché il popolo elettore - sovrano ai sensi degli articoli 1 e 48 - ha deciso diversamente, be': ha sbagliato ed i rappresentanti e governanti che si è scelto sono sempre e comunque indegni di rappresentarlo e governarlo, quand'anche ottenessero la maggioranza assoluta degli elettori e non solo dei voti validamente espressi.
Penso che simili atteggiamenti siano dannosi in primo luogo per il Partito democratico stesso. Innanzitutto perché gli elettori soprattutto occasionali del Popolo della Libertà - così come, ieri, quelli della Democrazia cristiana e del Movimento sociale italiano-Destra nazionale - non possono non sentirsi profondamente offesi. E se anche, nelle numerose discussioni nei bar o nei luoghi di lavoro attivate da spocchiosi militanti ed elettori di centrosinistra, taceranno le loro simpatie politiche per timore che venga addebitata loro la responsabilità per ogni azione ed omissione del governo in carica, di sicuro non si sogneranno nemmeno di modificare le proprie abitudini di voto in favore di un centrosinistra al quale - pur subendo il fascino intellettuale di molti suoi esponenti soprattutto extraistituzionali - non sentiranno mai di poter appartenere, rifiutandone nettamente la convinzione di essere sempre e comunque nel giusto, anche quando i fatti dimostrano cristallinamente il contrario. Ma un altro effetto negativo che quest'andazzo produce in primo luogo sul Partito democratico medesimo è quello d'impedirgli di "guardarsi dentro" e correggere i propri errori prima che sia troppo tardi, continuando a puntare l'indice della Verità e della Giustizia - molto malamente intese - sugli altri.
E questi mali del Partito democratico rischiano davvero di tradursi in altrettanti pericoli per la democrazia italiana.
Perché un partito di sole proteste e di nessuna proposta, di moltissimi "no", qualche "forse" e nessun "sì" - anche raccogliendo tutta la rabbia sociale e politica che produce qualsiasi società moderna - potrà ottenere molti consensi. Ma non riuscirà mai a costituire un'alternativa seria e credibile per un governo liberaldemocratico e moderno della Nazione.
Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com
Ma come si è giunti alle dimissioni volontarie di Walter Veltroni, segretario eletto il 14 ottobre 2007 attraverso partecipate elezioni primarie aperte a chiunque avesse dichiarato di aderire al progetto politico-culturale del Partito democratico?
Probabilmente, i germi della crisi stessa erano presenti fin dall'inizio dell'esperienza che condusse all'elezione di Veltroni, coincidente con la vera e propria fondazione del nuovo partito, nato principalmente dalla confluenza in esso dei Democratici di sinistra - partito che radunava la maggioranza di coloro che avevano militato nel Partito comunista italiano - e di Democrazia è Libertà-La Margherita - partito per circa tre quinti composto da cattolici che erano appartenuti, prima, alle sinistre interne della Democrazia cristiana e, poi, al secondo Partito popolare italiano e per i restanti due quinti da cattolici e no affacciatisi da poco alla politica o provenienti da altre esperienze tendenzialmente riconducibili al centrosinistra.
Chi scrive pensa che tali errori siano facilmente sintetizzabili dalla formula del "coraggio a metà", in un certo senso efficacemente individuato dall'attore Maurizio Crozza, il più noto imitatore dell'ex segretario del Pd, nell'espressione "ma anche" con la quale il "suo" Veltroni infarciva fino all'inverosimile ogni suo discorso.
Cito, in estrema sintesi e un po' alla rinfusa, quelli che secondo me sono i vizi che hanno quasi fatalmente condotto all'esito odierno. Annunciare la nascita di un partito nuovo (attenzione: non di un nuovo partito), governato da regole nuove a cominciare dall'"importazione" dai tanto vituperati Stati Uniti d'America del metodo di scelta del capo noto come elezione primaria, e poi inquinare queste regole nuove con logiche vecchie come il vietare a Bersani e a Finocchiaro di candidarsi in concorrenza a Veltroni, perché i democratici di sinistra non avrebbero potuto sopportare di sostenere più di un candidato, dimostrando subito che l'unione di elettorati, militanze e culture politiche era in realtà un'alleanza fra apparati. Abbinare all'elezione primaria del capo quella dell'assemblea che avrebbe dovuto individuare i principi e le regole fondamentali del nuovo partito ed indirizzarne la prima fase e poi rendere quest'assemblea numerosa come un Comune italiano neanche tanto piccolo - cosa che impediva di per sé che l'organismo acquisisse una sua soggettività politica, fatta di vita interna e di possibilità di far emergere, tema per tema, maggioranze e minoranze - ed impedire che tra i candidati di ciascuna lista si potesse esprimere un voto di preferenza, tanto per evitare sorprese rispetto agli equilibri già largamente predeterminati nelle "segrete stanze".
Ad ogni modo Veltroni ricevette un largo consenso ed avrebbe avuto, di conseguenza, tutto il diritto di sentirsi il capo effettivo ed effettivamente direttivo della "nuova" forza politica, agendo di conseguenza. Di fronte alla crisi, dapprima latente poi esplosa, del governo Prodi II, Veltroni utilizzò a mio parere bene questo potere annunciando che il nuovo partito si sarebbe presentato da solo alle successive elezioni. Scelta certamente di "rottura" rispetto alla tradizione antica e recente della politica italiana, ma in un certo senso anche obbligata vista l'esperienza dell'incosciente e suicida maggioranza che (non) aveva sostenuto Prodi, dato soprattutto che il Partito democratico voleva presentarsi come una forza capace di governare la Nazione e non soltanto di vincere le elezioni generali. Evidentemente, però, il maanchismo è una tentazione alla quale Veltroni non sa proprio resistere e l'innovativo "corriamo da soli" diventa il nefasto "corriamo da soli, ma anche con Di Pietro". Consentendo così che una formazione protestataria e residuale come "Italia dei valori" diventasse il punto di riferimento di quanti, delusi dai propri partiti di tradizionale affidamento Ds e Rifondazione comunista, non volevano favorire il Popolo della Libertà non votando o dando un voto "inutile" a liste minori di estrema sinistra.
In questo quadro, il Partito democratico non riesce ad esprimere una posizione chiara e, soprattutto, unitaria, su pressoché nessun tema rilevante dell'agenda politica e si trascina stanco fra incertezze ed accuse di "autoritarismo imminente" fino alla batosta di metà febbraio nelle elezioni sarde, con il drastico calo dei consensi al partito e l'uscita di scena del candidato del "centrosinistra plurale" Soru, editore del quotidiano storico della sinistra legata alla tradizione comunista "L'Unità" e da molti accreditato come valida alternativa alla segreteria Veltroni.
Giungiamo quindi all'elezione dell'ex democristiano di sinistra Franceschini con le modalità ricordate all'inizio. Il nuovo segretario galvanizza la platea annunciando che il giorno dopo si recherà in visita a Ferrara dall'anziano padre, già partigiano cattolico della Resistenza all'occupazione tedesca e deputato democristiano, per prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione ponendo le mani proprio sulla prima copia della Legge fondamentale posseduta da quest'ultimo. Davvero una scelta nobile e, oltre che per l'alto valore simbolico ed evocativo, ricca di significato, soprattutto per rendere maggiormente nota la concezione della politica posseduta da Franceschini ed iniziare a prefigurare, così, le linee della sua azione di guida del maggior partito d'opposizione. Peccato solo che il nuovo segretario abbia commesso l'errore di rovinare questo momento intenso e quasi commovente accusando, per l'ennesima volta da un quindicennio, l'attuale presidente del Consiglio di considerare un impaccio il Parlamento, il presidente della Repubblica e, in generale, i principi e gli istituti di garanzia previsti dalla Costituzione, mirando a concentrare nelle proprie mani tutti i poteri pubblici. Solo che Franceschini non si accorge che così facendo svilisce proprio quella Costituzione che dichiara di venerare. Perché se anche Berlusconi avesse veramente di quelle mire - e non nego che molte azioni ed affermazioni di quest'ultimo facciano propendere per quest'ipotesi - chi sta volontariamente e solennemente giurando fedeltà alla Costituzione dovrebbe anche, coerentemente, manifestare fiducia nel fatto che la Costituzione stessa possiede tutti gli anticorpi atti ad impedire quest'esito. E' sbagliato il comportamento franceschiniano anche perché suggerisce un'equivalenza tra la fedeltà alla Costituzione e l'indisponibilità a proporre o accettare modifiche ad alcune norme della stessa, veicolando perfino l'idea che criticare una o più individuate disposizioni della Legge fondamentale sia illegittimo se non, addirittura, potenzialmente eversivo! Dimenticando che l'esigenza dell'adeguamento ai tempi delle "regole del gioco" è sempre stata presente negli stessi costituenti che, non a caso, hanno previsto un'apposita procedura per l'integrazione e la modifica della Costituzione ed ha sempre accompagnato il dibattito giuspubblicistico, costituzionalistico e politologico anche quando quello politico e mediatico ne erano momentaneamente distratti.
Ma l'aspetto più grave dell'uscita del neosegretario è l'accreditamento dell'idea nefasta che la Costituzione è "cosa nostra", proprietà esclusiva delle forze di centrosinistra. L'idea che il popolo non abbia la maturità per scegliere i propri rappresentanti e governanti e che, quindi, "minoranze illuminate" - inutile dirlo: guidate dal Partito democratico - siano le uniche in grado di guidare la Nazione verso l'inveramento dei valori costituzionali. E se questo non succede perché il popolo elettore - sovrano ai sensi degli articoli 1 e 48 - ha deciso diversamente, be': ha sbagliato ed i rappresentanti e governanti che si è scelto sono sempre e comunque indegni di rappresentarlo e governarlo, quand'anche ottenessero la maggioranza assoluta degli elettori e non solo dei voti validamente espressi.
Penso che simili atteggiamenti siano dannosi in primo luogo per il Partito democratico stesso. Innanzitutto perché gli elettori soprattutto occasionali del Popolo della Libertà - così come, ieri, quelli della Democrazia cristiana e del Movimento sociale italiano-Destra nazionale - non possono non sentirsi profondamente offesi. E se anche, nelle numerose discussioni nei bar o nei luoghi di lavoro attivate da spocchiosi militanti ed elettori di centrosinistra, taceranno le loro simpatie politiche per timore che venga addebitata loro la responsabilità per ogni azione ed omissione del governo in carica, di sicuro non si sogneranno nemmeno di modificare le proprie abitudini di voto in favore di un centrosinistra al quale - pur subendo il fascino intellettuale di molti suoi esponenti soprattutto extraistituzionali - non sentiranno mai di poter appartenere, rifiutandone nettamente la convinzione di essere sempre e comunque nel giusto, anche quando i fatti dimostrano cristallinamente il contrario. Ma un altro effetto negativo che quest'andazzo produce in primo luogo sul Partito democratico medesimo è quello d'impedirgli di "guardarsi dentro" e correggere i propri errori prima che sia troppo tardi, continuando a puntare l'indice della Verità e della Giustizia - molto malamente intese - sugli altri.
E questi mali del Partito democratico rischiano davvero di tradursi in altrettanti pericoli per la democrazia italiana.
Perché un partito di sole proteste e di nessuna proposta, di moltissimi "no", qualche "forse" e nessun "sì" - anche raccogliendo tutta la rabbia sociale e politica che produce qualsiasi società moderna - potrà ottenere molti consensi. Ma non riuscirà mai a costituire un'alternativa seria e credibile per un governo liberaldemocratico e moderno della Nazione.
Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com
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