mercoledì 9 settembre 2009

Toghe tinte di sangue

Sono ventisette i magistrati italiani uccisi a causa del dovere.
Paride Leporace ne riporta a galla la memoria con il volume "Toghe rosso sangue", Newton Compton editori.


Scilla (Italia), 9 settembre 2009

Letto "Toghe rosso sangue", Newton Compton editori, di Paride Leporace.
Raramente ho trovato in un libro così tanta umanità e così poca retorica. Fin dall'introduzione, ove l'autore racconta per sommi capi la genesi e le modalità di costruzione dell'opera. Ma è soprattutto l'umanità dei ventisette giuristi che decisero di servire l'Italia come magistrati che emerge. A ciascuno è dedicata una sorta di monografia nella quale si rinvengono notizie sulle modalità dell'uccisione (o, nel caso del giudice civile Paolo Adinolfi, della "sparizione") e sui possibili moventi, spesso avvolti nel mistero. Ma anche la vita di ogni magistrato è riportata alla luce. Con garbo, rispetto e senza inutili mitizzazioni postume. La famiglia d'origine, i tempi e i modi dell'incontro col diritto. Gli affetti, le passioni, le idiosincrasie. Gli orientamenti filosofico-culturali che, fin quando non naufragano nella deriva correntista e politicista, sono il salutare riflesso di una società pluralista ed arricchiscono il modo di leggere il rapporto sempre dinamico tra comunità e diritto.
Come quelli di Francesco Coco (1908-1976, non sono note parentele con l'omonimo calciatore nato un anno dopo la sua morte), il procuratore generale genovese - primo "colpo grosso" delle Brigate rosse - "in odor di fascismo", che poteva vantare nel suo cursus honorum anche il salvataggio in extremis, nella natia Sardegna, di alcuni esponenti della famiglia Berlinguer dai rigori della legislazione antidemocratica del regime. O quelli dei numerosi magistrati talora ingenuamente (considerazione mia) progressisti che si adoperavano (in gran parte riuscendoci) per rafforzare l'applicazione dei principi garantisti alla legislazione penale e per una condotta del sistema penitenziario maggiormente attenta alla dignità delle persone detenute ed alla finalità rieducativa dell'istituto. E che, con il loro involontario sacrificio, hanno contribuito ad aprire gli occhi a un'opinione pubblica, specialmente di sinistra, nella quale ancora troppe componenti non riuscivano a considerare il ricorso alla violenza politica come "tabù". Almeno fin quando a cadere era il "duro" di turno che poi, a ben vedere, altro non era che una persona che svolgeva dignitosamente e correttamente il ruolo per il quale aveva concorso e che gli era stato affidato.
Leggendo "Toghe", poi, si ha finalmente contezza dell'effettivo valore dell'espressione, spesso ripetuta in maniera pigra e meccanica: "la persona X non era un eroe, ma solo un uomo responsabile che amava il suo lavoro e lo faceva bene".
Perché a volte, più che l'eccezionalità di vite votate al sacrificio nell'interesse della Repubblica e della giustizia, tema del libro sembra essere la normalità del rapporto di una Nazione, se non nella maggioranza di sicuro nelle sue componenti determinanti, con la corruzione, quanto meno passiva. La naturalezza estrema con la quale un magistrato, un poliziotto, un impiegato considera ovvio ricevere dalla comunità quattordici assegni mensili l'anno omettendo di adempiere i doveri del proprio ufficio. Perché i ventisette sono vittime anche, se non soprattutto, di questo. Dell'isolamento, del boicottaggio palese e silenzioso, di grandi e piccole viltà quotidiane. Di inadempimenti, o adempimenti parziali e svogliati, apparentemente innocui (e come tali percepiti dalla "massa critica" dell'opinione pubblica), anche di semplici atti di ordinaria amministrazione, che s'inseriscono in una catena di fatti capace di causare, o non impedire, la morte di un uomo.
E questo per non parlare del terrificante fenomeno della corruzione attiva o - meglio - della presenza della criminalità professionale nelle istituzioni, spesso resa possibile dalla corruzione passiva e dall'amore per il quieto vivere dei più.
Leporace è un giornalista, e si vede. Leggerlo è un'impresa agevole e piacevole. Come per Montanelli, Vespa, il diplomatico-scrittore Sergio Romano, il suo stile è lineare, asciutto, intellegibile. I periodi sono brevi, gli aggettivi e gli avverbi pochi e scelti con cura e pregnanza di significato, i concetti immediatamente comprensibili.
Come nei migliori libri, non manca qualche inesattezza di nessun conto per l'economia del volume. Come l'indicazione di Filippo Mancuso come "futuro guardasigilli di Berlusconi" (lo sarà di Dini) o di Pietro Lunardi come "ministro leghista degli anni '90" (sarà invece chiamato al governo nel 2001 come esperto ufficialmente non legato ad alcun partito).
Leporace è stato protagonista della stagione che, a partire dagli anni '90 del XX secolo, ha visto nascere - o "rinascere" - la stampa calabrese con "testa" in Calabria, ponendo fine al monopolio della messinese "Gazzetta del Sud". A Leporace va attribuita l'invenzione della testata "Calabria Ora", nella quale è percepibile l'omaggio a "L'Ora" di Palermo, storico quotidiano novecentesco diretto per primo da Vincenzo Morello, calabrese di Bagnara. Vista trasformare la sua creatura in qualcosa di diverso dal suo sogno-progetto, è "emigrato" a Potenza, dove dirige "il Quotidiano della Basilicata".
A memoria dei ventisette, e a parziale lenimento della nostra ansia di giustizia, forse è bene ricordare queste parole, pronunciate al funerale di Girolamo Tartaglone, nel 1978: "Lo sappiamo che lui non sarà l'ultimo, ma ci sarà sempre un giudice per giudicare un assassino".

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

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