mercoledì 17 dicembre 2008

Cosa differenzia un capo da un semplice dirigente?

Scilla (Italia), 18 dicembre 2008

Rispondo subito alla domanda del titolo. Un vero capo, una guida, lo si riconosce dal coraggio. O, se volete, dallo sprezzo del pericolo e del rischio. Magari anche quando questo coraggio e sprezzo del pericolo e del rischio siano in realtà soltanto apparenti essendo, viceversa, stati ponderati molto attentamente.
Di queste "materie prime" la politica italiana non offre - e lo ha fatto raramente anche in passato e ancor più raramente con risultati soddisfacenti - grande disponibilità. Oggi vorrei soffermarmi soprattutto sul Partito democratico e sul suo segretario Walter Veltroni. In verità, una certa dose di coraggio Veltroni, all'inizio di questa sua ultima avventura, l'ha anche dimostrata. Mandando in archivio l'esperienza dell'"armata Brancaleone" che aveva sostenuto - o, meglio, ostacolato - il governo Prodi II e con essa, implicitamente, tutta l'esperienza delle "accozzaglie" dei mille partiti dallo zero virgola niente per cento ciascuno.
Solo che questo coraggio rimase, incredibilmente, incompiuto. Veltroni si fermò a metà. O, meglio, pose le premesse del suo insuccesso futuro. Fu veramente incomprensibile la "deroga" al "corriamo da soli" che Veltroni concesse al partito di Antonio Di Pietro per la presentazione di una lista autonoma alleata, e non "incorporata" com'era avvenuto per i radicali, di quella del Partito democratico. E poco valsero i "piagnistei" postelettorali di Veltroni per la decisione di Di Pietro di non accettare di costituire gruppi unici dei due partiti nelle due Camere come pure ci si era impegnati a fare in campagna elettorale. Per il semplice fatto che la storia non è acqua e la storia ci parla di un'infinità di cartelli elettorali - dalla lista unica Psi-Psdi agli "indipendenti di sinistra" candidati con il Pci fino al Ccd che si presentò nella lista di Forza Italia alle elezioni del '94 e a moltissimi altri esempi - sciolti il giorno successivo alle elezioni e ricomposti in un'infinità di micro-gruppi parlamentari o di micro-componenti del gruppo misto, complice la tradizionale "generosità" con la quale i presidenti delle Camere hanno concesso deroghe al numero minimo di parlamentari necessari per la costituzione di un gruppo autonomo previsto dal regolamento. Io, che riconosco pochi pregi a Di Pietro, non mi sento di biasimarlo per aver "monetizzato" il grande risultato delle politiche anticipate - sia pur ottenuto per "merito-colpa" di Veltroni - costituendo gruppi autonomi nei due rami del Parlamento nazionale.
Il punto è un altro. Perché, cioè, Veltroni concesse quella deroga a Di Pietro in sede di presentazione delle liste alle politiche anticipate? A tutt'oggi, una seria motivazione politica non si è riusciti a trovarla da nessuna parte. Qualcuno ha avanzato delle motivazioni "dietrologiche" che anche a chi, come chi scrive, guarda con un certo sospetto questo tipo di indagini politologiche, sono parse appena un po' più convincenti di quelle politiche. E cioè che il Pd, consentendo la citata deroga ai dipietristi, abbia, in realtà, voluto offrire delle "garanzie" alla magistratura in tema di possibili riforme - tanto urgenti quanto guardate come fumo negli occhi dai magistrati politicizzati - ottenendo, in cambio, la prosecuzione della politica dell'"occhio di riguardo" osservata dalla magistratura medesima nei confronti del Pci-Pds-Ds-Pd (speriamo che i mutamenti di nome siano finiti per almeno dieci anni...) fin dai tempi di "Mani pulite".
Ed è proprio qui la mancanza di coraggio di Veltroni, che era stata anche di D'Alema e prima ancora di Occhetto. Il coraggio, cioè, di rinunciare all'inquinato capitale di consenso derivante dall'uso politico delle disavventure giudiziarie degli avversari e riconoscere finalmente che questa Nazione, perché possa dirsi compiutamente civile e moderna, deve risolvere dei problemi incancreniti sul versante "giustizia-politica-informazione".
Dalla riduzione dei vergognosi tempi processuali alla mediatizzazione delle iniziative investigative. Da una politica che si cannibalizza ad una magistratura che s'incarica di "missioni" che non le competono o che, comunque, non può compiere nel modo in cui talvolta mostra di compierle. Fino alla rozzezza di un'informazione che trasforma una iscrizione nel registro degl'indagati in una imputazione, un'imputazione in una condanna; che confonde rapporti probabilmente da giustificare sul piano politico per prove inconfutabili di responsabilità penale etc.
La corruzione è, ovviamente, un'immane tragedia. Soprattutto per la sua diffusione e la scarsa configurazione come tale, nell'immaginario collettivo, di una serie infinita di rapporti che riguardano la quasi totalità dei cittadini. Dall'occhio di riguardo chiesto al professore del figlio all'occhio, viceversa, chiuso chiesto all'autorità preposta a vigilare sui possibili abusi edilizi etc.
Quel ch'è certo, però, è che i polveroni non aiutano di sicuro a combattere la corruzione. Anzi, probabilmente conducono all'effetto contrario. Fanno ritenere, cioè, che "il sistema" è in sé malato e non si deve, di conseguenza, colpevolizzare troppo il singolo che, in fondo, non poteva che adeguarsi.
Il vero problema delle classi dirigenti italiane - dalla politica alle università, dai sindacati alla magistratura etc. - è, piuttosto, il loro farsi casta, come direbbero Rizzo e Stella. La loro inamovibilità. E quindi meccanismi giuridici che limitassero il numero di mandati parlamentari o di governo che ciascun soggetto può ricoprire consecutivamente; che riducessero il numero dei membri delle assemblee elettive e degli organi esecutivi; che sostituissero con amministratori unici onniresponsabili i mille consigli d'amministrazione pletorici ed inefficienti etc. darebbero, secondo me, risultati migliori sul fronte della lotta alla corruzione dell'ennesima tempesta giudiziaria che, come tutte le tempeste, passerà.
Esistono capi, guide, dotati del coraggio di far proprie e condurre alla realizzazione queste proposte?

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com

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